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mercoledì 27 aprile 2016

Matrimonio di breve durata? Sì all’assegno in caso di precarie condizioni economiche



Matrimonio di breve durata? Sì all’assegno in caso di precarie condizioni economiche
Cassazione Civile, sez. VI, ordinanza 11/03/2016 n° 4797
La mancanza di capacità lavorativa del coniuge, dovuta alla malattia, e l’esigua somma ricavata dalla pensione d’invalidità, legittimano l’attribuzione dell’assegno divorzile, anche se il matrimonio è durato solo due anni e il coniuge obbligato deve sostenere gli oneri derivanti dalla costituzione di un nuovo nucleo familiare.
La Corte di Cassazione – ordinanza 11 marzo 2016, n. 4797 – ribadisce il principio ormai consolidato secondo cui la breve durata del matrimonio non è sufficiente ad escludere il riconoscimento dell'assegno divorzile.
Nel giudizio per la cessazione degli effetti civili del matrimonio, alla moglie era stato riconosciuto un assegno mensile di 200 euro sulla base dell’inadeguatezza dei mezzi economici propri e dell’impossibilità di procurarseli, poiché la donna era affetta da disturbo bipolare, a prevalente componente depressiva, che la rendeva assolutamente inabile allo svolgimento di un’attività lavorativa.
Il marito aveva appellato la decisione e la Corte territoriale aveva confermato l’attribuzione dell’assegno in favore della moglie, che percepiva unicamente una pensione d’invalidità di euro 275,00 mensili, riducendo la misura dell'assegno a 150 euro mensili basandosi su due ragioni: la breve durata del matrimonio (circa due anni) e la costituzione di una nuova famiglia da parte dell’uomo.
Quest’ultimo ricorreva, infine, in Cassazione lamentando la violazione dell'art. 5 6° co. della L. n. 898/70, perché la Corte non avrebbe eseguito la necessaria verifica comparativa tra l'attuale situazione reddituale e patrimoniale della richiedente e quella sussistente all'epoca della cessazione della convivenza.
Un’ulteriore violazione di legge, il non aver tenuto conto della breve durata del matrimonio che escluderebbe il diritto all'assegno divorzile.
La Cassazione ha dichiarato inammissibile il ricorso.
Sul punto dell'omessa indagine sul tenore di vita goduto dai coniugi in costanza di matrimonio, il ricorrente non ha devoluto specificamente la questione al giudice d'appello, ma si è limitato ad affermare che l'assegno fosse stato riconosciuto sulla base di certificazioni mediche tardivamente prodotte e non idonee.
Toccando il merito della questione, comunque, il peggioramento del tenore di vita della moglie rispetto a quello goduto in costanza di matrimonio, risultava, senza bisogno di accertamenti, dalla modesta pensione d’invalidità percepita dalla signora, di appena 275 euro mensili, rispetto allo stipendio fisso percepito dal ricorrente.
Quanto alla considerazione della breve durata del matrimonio, il motivo è stato dichiarato inammissibile perché si limita a prospettare la mera "ingiustizia" della decisione e a pretendere una nuova valutazione nel merito delle circostanze sulle quali questa si fonda, e ciò esula dalle competenze della Cassazione.
Inoltre, la Corte d’appello avrebbe attentamente già vagliato la questione, tratto il proprio convincimento e fornito adeguata motivazione, per cui nessuna censura può essere sollevata.
La pronuncia si allinea, alle precedenti decisioni in materia di diritto all’assegno divorzile.
In particolare, quanto alla durata del matrimonio come parametro per la valutazione della sussistenza del diritto, la sentenza 5 febbraio 2016, n. 2343, ha affermato che la durata del matrimonio, in materia di divorzio, può incidere sulla misura dell'assegno previsto dall'art. 5 della legge n. 898 del 1970, ma non anche sul riconoscimento in astratto dello stesso, che si fonda sul giudizio d’inadeguatezza dei mezzi economici del coniuge richiedente comparati al tenore di vita goduto o sulle aspettative maturate nel corso del rapporto.
La giurisprudenza di legittimità è, insomma, costante nell’affermare che nel divorzio, la durata del matrimonio non esclude necessariamente il diritto all’assegno. Fanno eccezione a questa regola i soli casi in cui non si sia verificata alcuna comunione materiale e spirituale tra i coniugi per la troppo breve durata del vincolo (Cass. Civ. n. 6164/2015).

martedì 26 aprile 2016

Come sta entrando Facebook nelle separazioni? Il punto su diffamazione, addebito e prove



Come sta entrando Facebook nelle separazioni? Il punto su diffamazione, addebito e prove
I social sono ormai entrati prepotentemente nella fase istruttoria delle separazioni giudiziali e dei divorzi contenziosi.
I binari su cui viaggia l'ingresso di Facebook in tali controversie sono essenzialmente tre: il collegamento con la sfera penale per il tramite della fattispecie della diffamazione, il dilemma della utilizzabilità in fase istruttoria dei post inseriti sui profili dei coniugi, infine la prova dell'eventuale infedeltà a mezzo corrispondenza sui social.
Partiamo dalla diffamazione. La traduzione migliore in termini giurisprudenziali di Facebook è quella di una piazza virtuale, di un agorà, nella quale ognuno è libero di esprimere le proprie opinioni, senza però intaccare il decoro e la dignità. Laddove ciò dovesse verificarsi si integrerebbe senza ombra di dubbio il reato di diffamazione o quello di diffamazione aggravata. Il tragitto effettuato dai giudici che hanno dovuto interpretare le norme a disposizione e adattarle ai mutamenti telematici è quello di una presa di coscienza di mutamento sociale, tale per cui la stampa o la televisione non sono più l'unico mezzo attraverso il quale è possibile veicolare le proprie opinioni positive o negative nei riguardi di un soggetto fisico o giuridico.
Il secondo binario di ingresso dei social nelle controversie di separazione e divorzio è quello che attiene al dilemma della utilizzabilità dei post nella fase istruttoria. Anche in questa fase pare che i giudici di merito in prima istanza e poi a ruota quelli di di legittimità abbiano spalancato le porte al mutamento delle forme di comunicazione tra individui. Infatti, risulta ormai pacifico come possa essere provato il tenore di vita e di una delle due parti attraverso i suoi post, tenore di vita che per esempio potrebbe essere del tutto contrastante con quello dichiarato agli atti o ammesso in fase di giuramento. Per esempio se il soggetto si dichiara nullatenente, o dichiara che fa fatica a sostenere le spese quotidiane ed ordinarie, e d'altro canto attraverso lo scorrimento dei suoi post si evince un tenore di vita fatto di viaggi, abbigliamento, acquisto di preziosi o di regalie varie che contrasta inevitabilmente con quanto asserito in istruttoria è di tutta evidenza che il social si offre in dote al giudicante quale cartina tornasole. Come pure una nuova convivenza, mal celata se non addirittura forzatamente ostentata attraverso Facebook potrebbe dare vita a una rivisitazione o a una inversione dell'assegnazione della casa familiare. Questo in quanto è pacifico che l'assegnatario della casa familiare ne perde titolo nel momento in cui è pacifico che all'interno di quella casa egli/ella conviva con il nuovo partener, dovendo quindi lasciare la casa o, a quel punto, riconoscere un canone mensile all'ex coniuge.
In linea generale la giurisprudenza ha fatto sì che le informazioni pubblicate sul profilo personale siano utilizzabili come prove documentali nei giudizi di separazione. Infatti, a differenza delle informazioni contenute nei messaggi scambiati utilizzando servizi di messaggistica istantanea, che vanno assegnate alla categoria della corrispondenza privata, e per tanto chiuse nella dogana della privacy, quelle foto pubblicate sul profilo personale proprio in quanto già di per sé destinate ad essere conosciute da soggetti terzi, sebbene rientranti nella cerchia delle amicizie social, non possono ritenersi assistite dalla protezione della privacy, dovendo, al contrario, essere considerate nostre informazioni conoscibili.
Ma cosa succede se si scopre che la moglie o il marito hanno una relazione extraconiugale su Facebook o su altri social network, in particolare quelli votati alla ricerca di nuove "relazioni" come Badoo o Tinder? È possibile punire con l'addebito il tradimento con queste modalità?
La Corte d'Appello di Taranto, lo scorso 30 aprile 2015 ha pronunciato un'importante sentenza. Partendo dal presupposto che l'articolo fondamentale su cui basarsi per una sentenza di separazione con addebito è l'art. 143 comma II, la Corte ha sancito che costituisce violazione dei doveri coniugali secondo detto articolo del codice civile, anche lo stabilire amicizie "alternative" ed equivoche attraverso i social networks, con la conseguenza che tali comportamenti ben possono essere posti a fondamento dell'addebito della separazione, laddove si dimostri che essi abbiano causato in modo irreversibile la crisi dell'unione coniugale.

La Corte di Cassazione, infatti, con la sentenza del 9 aprile 2015, n. 7132, ha sostenuto che la pronuncia di addebito della separazione può anche non fondarsi solo sulla violazione dei doveri posta dall'art. 143 c.c. a carico dei coniugi, ma anche sulla continuativa ed unilaterale violazione del dovere di lealtà, tale da minare quel nucleo imprescindibile di fiducia reciproca che deve caratterizzare il vincolo coniugale.
Quanto affermato dalla Corte di Cassazione è importantissimo, poiché fa rientrare all'interno dei doveri coniugali anche il dovere di lealtà, espressione del principio di solidarietà fra i coniugi: il tradimento su Facebook potrebbe essere ritenuto una violazione del dovere di lealtà.
Quindi è possibile ottenere una pronuncia di separazione con addebito nel caso in cui il marito o la moglie intrattengano una relazione extraconiugale su Facebook o su altri social network? Certo, è possibile, ma il risultato non è così scontato.
La Corte di Cassazione, infatti, con la sentenza del 12 aprile 2013, n. 8929, ha sancito che in tema di separazione giudiziale dei coniugi, non sempre può essere pronunciato l'addebito nei confronti del coniuge che abbia intrattenuto, con altra persona, contatti telefonici e via Internet.
Qualora tale legame si sia, ad esempio, concretizzato in un rapporto solo platonico, senza i connotati di una relazione sentimentale extraconiugale in violazione del dovere di fedeltà, il giudice potrebbe non pronunciare l'addebito nei confronti di quel coniuge che abbia avuto una relazione extraconiugale su Facebook.
La questione fondamentale è che sarà il giudice di merito a dover constatare che siano integrati i requisiti previsti dalla legge e dalla giurisprudenza di legittimità, affinché possa essere pronunciata una separazione con addebito. Sarà compito dell'avvocato constatare che vi siano tutti gli elementi probatori per poter sostenere la vostra tesi dinanzi al giudice. Ed in ciò entrano inevitabilmente in gioco le contaminazioni culturali dell'interprete giudicante. Per esempio, le difese potranno giocare sulla semplice adesione di una delle due parti ad un social la cui mission è proprio quella di aiutare a cercare nuove relazioni o più semplicemente nuove avventure. La Cassazione nella sua giurisprudenza assume, invece, atteggiamenti più riflessivi ritenendo che l'effetto della relazione extraconiugale sull'addebito della responsabilità della separazione deve essere valutato nel caso concreto per determinare il peso che esso ha avuto nella crisi coniugale: per esempio, una crisi già conclamata e nella quale l'affetto familiare sia già venuto meno per altre cause, non consente di considerare il tradimento come motivo della separazione.
Senza contare, infine, il circolo virtuoso: vado sui social a cercare compagnia perché tu non mi vuoi; cui si potrebbe obiettare: ti voglio perché ho notato che stai sempre in chat e sui social a flirtare.

giovedì 21 aprile 2016

Mantenimento e nuova convivenza: linea drastica della Cassazione



Mantenimento e nuova convivenza: linea drastica della Cassazione
L’unione di fatto intrapresa dall’ex dopo la separazione fa venir meno il diritto al mantenimento che non rinasce neppure qualora essa si rompa.
 Sono molti coloro che, dopo la separazione o il divorzio, intraprendono una nuova convivenza e, spesso, creano una nuova famiglia. Ebbene, per quelli di loro che, sino ad oggi, hanno confidato sul diritto a ricevere un assegno di mantenimento dall’ex sono in arrivo brutte notizie.
La Cassazione, infatti, con una pronuncia di pochi giorni fa [1] ha sancito un nuovo e importante principio: quello secondo cui, quando uno dei coniugi abbia intrapreso una relazione di fatto, non solo questa fa venir meno il diritto all’assegno divorzile, ma esso non risorge nel caso in cui tale relazione venga a cessare.
 Per meglio comprendere le conclusioni dei Supremi giudici è bene fare un passo indietro.
 Se, per legge [2], infatti, solo il nuovo matrimonio è in grado di far cessare in automatico il diritto al mantenimento da parte del coniuge economicamente più debole, tuttavia la Corte già da qualche tempo aveva affermato [3] che la convivenza dell’ex costituisce una circostanza in grado di far venir meno il diritto all’assegno.
 Tale orientamento, tuttavia, partiva dal fatto di attribuire un carattere temporaneo alla unione di fatto, sicché,  comunque, il diritto in questione poteva rinascere una volta che l’ex beneficiario avesse provato la rottura della relazione.
 Non vi era dunque nessuna certezza per il coniuge onerato del mantenimento, il quale – in qualsiasi momento – poteva trovarsi nuovamente obbligato a versare l’assegno. Situazione questa che, non lo si può negare, ha costituito fino ad oggi oggetto di non pochi “abusi” solo ove si pensi a tutte cessazioni delle convivenze intervenute “guarda caso” poco prima di un divorzio, proprio quando, cioè, i coniugi si trovano a discutere sulla spettanza o meno di un assegno divorzile.
 Con questa pronuncia, quindi, la Suprema Corte spiana la strada ad un orientamento che riconosce un nuovo e – crediamo – più giusto peso alla famiglia di fatto, indicandola non solo nella situazione di convivenza dei coniugi, ma innanzitutto – usando le sue parole – in “una famiglia portatrice di valori di stretta solidarietà, di arricchimento e sviluppo della personalità di ogni componente, e di educazione e istruzione dei figli”.
 E ciò, anche in ragione della necessità di tutela del coniuge obbligato, il quale – sottolinea la Cassazione – è giusto che possa confidare, in presenza di una relazione e convivenza di fatto dell’ex, nel definitivo esonero dall’obbligo di versare l’assegno.
 Requisiti della famiglia di fatto
È giusto precisare, tuttavia, che per i Supremi giudici queste importanti ripercussioni economiche possono avere effetto solo quando la convivenza intrapresa dall’ex sia di tipo stabile e duraturo, al pari di quanto avviene nella famiglia fondata sul matrimonio. Solo in questo modo, infatti, essa assume i connotati della famiglia di fatto vera e propria; quella cioè che permette di considerare rescisso ogni legame con il tenore di vita di cui alla convivenza tra marito e moglie e, di conseguenza, venuto meno il presupposto per il riconoscimento di un assegno di divorzio.

È giusto – aggiunge la Corte – che, chi decide di intraprendere una relazione stabile, si assuma anche i rischi della cessazione della convivenza che rappresenta anche una decisione di coerenza; l’unione di fatto è, infatti, “espressione di una scelta esistenziale, libera e consapevole, da parte del coniuge, eventualmente potenziata dalla nascita di figli”.

La pronuncia in esame, che si allinea tra l’altro alla posizione di altri Paesi europei (che addirittura parificano ad ogni effetto di legge il matrimonio e la convivenza) sicuramente segna un passaggio importante al riconoscimento da parte del legislatore di un maggiore valore sociale alle famiglie di fatto.

La vicenda
Nel caso di specie la Suprema Corte ha accolto la domanda con cui un uomo chiedeva di non dover più versare un assegno mensile di 1000 euro alla moglie; la donna infatti, nel periodo della separazione, aveva intrapreso una stabile relazione da cui erano nati dei figli, ma che poi si era conclusa.

In pratica
Se, fino a questo momento, l’orientamento della giurisprudenza è stato quello di prevedere una sorta di sospensione del beneficio economico dell’assegno divorzile fino alla permanenza dell’unione di fatto del coniuge economicamente più debole, con questa pronuncia, la Suprema Corte afferma che il diritto a beneficiare dell’assegno debba ritenersi cessato (e che non possa più rinascere) anche nel caso in cui la relazione di fatto si concluda.
[1] Cass. sent. n. 6855/15 del 3.04.15.
[2] Art. 5 co.10 L.898/70.
[3] Cass. sent.17195/11.

giovedì 14 aprile 2016

Separazione, mantenimento: conta capacità reddituale certa parte più debole, irrilevante breve durata vincolo



Separazione, mantenimento: conta capacità reddituale certa parte più debole, irrilevante breve durata vincolo
13-04-2016 07:10 - Cassazione Sezioni Civili

Lo ha affermato la Corte di Cassazione con Sentenza n. 6433 del 2016 con la quale i supremi giudici hanno precisato che la mera attitudine al lavoro del coniuge richiedente l´assegno di mantenimento non è sufficiente, di per sè, a dimostrare il possesso di un´effettiva capacità a produrre reddito .
I Supremi Giudici hanno sottolineato, infatti, che bisogna necessariamente tener conto delle concrete prospettive occupazionali connesse a circostanze soggettive ed oggettive concrete, non potendosi invece operare una valutazione astratta ed aleatoria.
In altre parole gli Ermellini, ben coscienti della realtà economico- sociale In essere, hanno affermato che ai fini della richiamata valutazione Il Giudice deve necessariamente fare riferimento ai parametri su menzionati.
In effetti, i Giudici di prime cure si erano attenuti all´orientamento consolidato della giurisprudenza di legittimità, che nell´ambito del relativo accertamento, ai fini del riconoscimento e della quantificazione del l´assegno, ha distinto due fasi: la prima diretta a verificare l´esistenza del diritto in astratto, in relazione all´inadeguatezza dei mezzi del coniuge richiedente, raffrontati ad un tenore di vita analogo a quello tenuto in costanza di matrimonio e che sarebbe stato presumibilmente proseguito in caso di continuazione dello stesso vincolo, o quale avrebbe potuto legittimamente e ragionevolmente configurarsi sulla base di aspettative maturate nel corso del rapporto; la seconda volta alla determinazione in concreto dell´assegno, sulla base delle condizioni dei coniugi, delle ragioni della decisione e del contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare e alla formazione del patrimonio di ognuno e di quello comune, nonchè del reddito di entrambi, da valutarsi anche in rapporto alla durata del matrimonio.
La Corte di merito, in maniera indubbiamente corretta, aveva valorizzato anche la difficoltà di reperire un´occupazione adeguata, pur tenendo in considerazione la capacità lavorativa della giovane donna.
Inoltre, con la Sentenza in commento, i Supremi Giudici hanno precisato che la funzione eminentemente assistenziale di tale contributo, volto a tutelare il coniuge economicamente più debole, esclude la possibilità di negarne l´attribuzione in virtù della breve durata del matrimonio.

  • Fatto
FATTO E DIRITTO
E' stata depositata in Cancelleria la seguente relazione, ai sensi dell'art. 380-bis c.p.c.:
"1. Con la sentenza di cui in epigrafe, la Corte d'Appello di Roma ha accolto parzialmente l'appello proposto da S.A. avverso la sentenza emessa il 4 gennaio 2012, con cui il Tribunale di Frosinone, nel pronunciare la cessazione degli effetti civili del matrimonio contratto dall'appellante con A.R., aveva posto a carico di quest'ultimo l'obbligo di corrispondere l'assegno divorzile, ed ha rideterminato l'importo dell'assegno in Euro 500,00 mensili, da rivalutarsi annualmente secondo l'indice istat, con decorrenza dal mese di (OMISSIS), rigettando l'appello incidentale proposto dall' A..
2. - Avverso la predetta sentenza l' A. ha proposto ricorso per cassazione, articolato in due motivi, al quale la S. ha resistito con controricorso.
3. A sostegno dell'impugnazione, il ricorrente ha dedotto:
a) la violazione e la falsa applicazione della L. 1 dicembre 1970, n. 898, art. 5, sostenendo che, ai fini del riconoscimento e della determinazione dell'assegno, la sentenza impugnata non ha tenuto conto della capacità lavorativa della S., comprovata dalla giovane età e dalla titolarità di un impiego retribuito, nè della sua possibilità di aspirare ad un'occupazione più adeguata alle sue esigenze economiche, ponendo a carico di esso ricorrente gli oneri conseguenti alla scelta della donna di stabilirsi a (OMISSIS) e trascurando la breve durata del rapporto coniugale, che aveva impedito la maturazione di aspettative in ordine al mantenimento di un elevato standard di vira;
b) la violazione e la falsa applicazione dell'art. 91 c.p.c., affermando che, nel condannarlo al pagamento delle spese processuali, in virtù del rigetto dell'appello incidentale, la sentenza impugnata non ha tenuto conto dell'accoglimento soltanto parziale della domanda di rideterminazione dell'assegno divorzile, che avrebbe giustificato quanto meno la compensazione delle spese.
4. - Il primo motivo è infondato.
Ai fini del riconoscimento del diritto all'assegno, la sentenza impugnata si è correttamente attenuta all'orientamento consolidato della giurisprudenza di legittimità, che nell'ambito del relativo accertamento distingue due fasi, la prima diretta a verificare l'esistenza del diritto in astratto, in relazione all'inadeguatezza dei mezzi del coniuge richiedente, raffrontati ad un tenore di vita analogo a quello avuto in costanza di matrimonio e che sarebbe presumibilmente proseguito in caso di continuazione dello stesso o quale poteva legittimamente e ragionevolmente configurarsi sulla base di aspettative maturate nel corso del rapporto, e la seconda volta alla determinazione in concreto dello assegno, sulla base delle condizioni dei coniugi, delle ragioni della decisione e del contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare e alla formazione del patrimonio di ognuno e di quello comune, nonchè del reddito di entrambi, da valutarsi anche in rapporto alla durata del matrimonio (cfr. Cass., Sez. 1, 9 giugno 2015, n. 11870; 15 maggio 2013, n. 11686; 4 ottobre 2010, n. 20582).
Nel valutare l'adeguatezza delle risorse economiche a disposizione della S., essa non ha affatto omesso di conferire rilievo alla capacità lavorativa della stessa, avendo dato opportunamente atto che a seguito della separazione dal coniuge ella ha trovato occupazione come lavoratrice dipendente, ma avendo anche accertato che la relativa retribuzione non le consente di mantenere un tenore di vita comparabile a quello goduto nel corso della convivenza; nell'ambito di tale verifica, la Corte di merito ha peraltro valorizzato anche la difficoltà di reperire un'occupazione adeguata, in conseguenza dell'età della controricorrente e dell'attuale situazione di crisi economica, in tal modo conformandosi al principio, più volte ribadito da questa Corte, secondo cui la mera attitudine al lavoro del coniuge che richiede l'assegno non è sufficiente, se valutata in modo ipotetico ed astratto, a dimostrare il possesso di un'effettiva capacità reddituale, dovendosi tener conto delle concrete prospettive occupazionali connesse a fattori di carattere individuale ed alla situazione ambientale, nonchè delle reali opportunità offerte dalla congiuntura economico-sociale in atto (cfr. Cass., Sez. 1, 23 ottobre 2015, n. 21670; 17 gennaio 2002, n. 432; 19 luglio 1980, n. 4741). Non ha poi fondamento l'affermazione secondo cui la sentenza impugnata avrebbe fatto ricadere sull' A. i maggiori oneri conseguenti al trasferimento dell'abitazione della S. da (OMISSIS), in quanto, indipendentemente dal carattere necessitato di tale scelta, imposta dal reperimento di un impiego nella Capitale, la Corte distrettuale ha precisato di non averne tenuto conto ai fini del riconoscimento del diritto all'assegno. La funzione eminentemente assistenziale di tale contributo, volto a tutelare il coniuge economicamente più debole, esclude infine la possibilità di negarne l'attribuzione in virtù della breve durata della convivenza, la quale può venire in considerazione, in concorso con altri elementi, esclusivamente ai fini della commisurazione del relativo importo, a meno che, per volontà e colpa del richiedente, non abbia impedito la formazione di una comunione materiale e spirituale di vita tra i coniugi, in modo tale da far ritenere che il vincolo coniugale si sia solo formalmente costituito (cfr. Cass., Sez. 6, 26 marzo 2015, n. 6164; Cass., Sez. 1, 22 marzo 2013, n. 7295; 16 giugno 2000, n. 8233). Nella specie, peraltro, tale eventualità non è stata in alcun modo prospettata, essendo emersa soltanto una rilevante sproporzione tra la durata della convivenza (protrattasi per poco più di tre anni) e quella del matrimonio (scioltosi a circa quindici anni di distanza dalla celebrazione), rispetto alla quale la sentenza impugnata ha ritenuto, con motivazione immune da vizi logici, di dover attribuire prevalente rilievo al vistoso squilibrio tra le condizioni economico patrimoniali delle parti.
5. E' altresì infondato il secondo motivo.
Nel condannare l'appellato al pagamento delle spese processuali, nonostante l'accoglimento soltanto parziale del gravame principale, la sentenza impugnata ha fatto puntuale applicazione del criterio della soccombenza, avendo tenuto conto dell'esito complessivo del giudizio, sostanzialmente favorevole all'appellante, in quanto contraddistinto dalla liquidazione dell'assegno in misura superiore a quella determinata dalla sentenza di primo grado e dal rigetto dell'appello incidentale, con cui era stata chiesta l'esclusione dell'obbligo di corrispondere il predetto contributo. L'accoglimento soltanto parziale della domanda non attribuisce d'altronde alla controparte il diritto alla compensazione, totale o parziale, delle spese processuali, trattandosi di un provvedimento rimesso al potere discrezionale del giudice di merito, che prescinde da una valutazione della soccombenza in termini puramente quantitativi (cfr. Cass., Sez. 2, 11 gennaio 1979, n. 199; 26 gennaio 1978, n. 375)".
Il collegio, esaminato il ricorso, la relazione e gli scritti difensivi in atti, ritiene condivisibile l'opinione espressa dal relatore e la soluzione da lui proposta.
Il ricorso va pertanto rigettato, con la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali, che si liquidano come dal dispositivo.
  • PQM
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso, e condanna A.R. al pagamento delle spese processuali, che si liquidano in complessivi Euro 2.100,00, ivi compresi Euro 2.000,00 per compensi ed Euro 100,00 per esborsi, oltre alle spese generali ed agli accessori di legge.
Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del medesimo art. 13, comma 1-bis.
Ai sensi del D.Lgs. 30 giugno 2003, n. 196, art. 52, dispone che, in caso di diffusione della presente ordinanza, siano omessi le generalità e gli altri dati identificativi delle parti.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Sesta Civile, il 19 febbraio 2016.
Depositato in Cancelleria il 4 aprile 2016