Divorzio: addio mantenimento
della moglie
Come si
determina l’assegno di mantenimento, il calcolo, la capacità di lavorare della
donna e l’impossibilità a mantenerla del marito.
Ai giudici
piace sempre meno l’idea un mantenimento della donna giovane e
ancora abile al lavoro; e forse, non piace neanche più alle donne stesse,
complice una mutata situazione economica e sociale rispetto a quando le norme
del codice civile furono scritte. Così le aule dei tribunali sono sempre meno
propense all’accordare assegni di mantenimento generosi e, molto spesso,
superiori alle capacità del soggetto onerato (di norma, appunto, l’uomo).
Una recente
sentenza della Cassazione [1] risulta particolarmente interessante
perché segna uno spartiacque tra le situazioni in cui vi è effettiva situazione
di bisogno della donna – situazioni in cui l’assegno di mantenimento assume
una valida giustificazione – e altre invece in cui lo stato di bisogno è solo
il frutto del capriccio e della pigrizia – nel cui caso, invece, il mantenimento
va negato -. In particolare, l’inversione di rotta segnata dalla
Suprema Corte (rispetto a un passato non troppo
recente) consiste nell’affermare che la donna giovane, in
grado di lavorare e, quindi, di reperire con la propria attività quel reddito
necessario a mantenere lo stesso tenore di vita di cui godeva durante il
matrimonio, non ha diritto ad alcun mantenimento. E ciò anche se, durante
l’unione, svolgeva mansioni di casalinga.
Insomma,
ciascuno dei due ex coniugi deve badare a sé stesso e non c’è modo di obbligare
l’uomo a mantenere la donna se quest’ultima ha le risorse fisiche e mentali per
guadagnare. A tal fine, anche un’attività saltuaria potrebbe rilevare come
motivo per chiedere la revisione delle condizioni di mantenimento e azzerare
l’assegno. Tuttavia l’aspetto forse centrale di tutto questo discorso è che ora
l’onere della prova ricade sulla donna e non più sul
marito. Ma procediamo con ordine.
PUBBLICITÀ
Sappiamo che
non esiste un criterio matematico in base al quale la legge definisce come
calcolare il mantenimento, ma la Cassazione ha dettato alcune linee
guida abbastanza chiare. Eccole:
1) – il
primo obiettivo dell’assegno di mantenimento è quello di garantire alla donna
lo stesso tenore di vita di cui godeva quando ancora era legata in
matrimonio con l’uomo;
2) – tale
obiettivo va perseguito nella misura in cui sia sostenibile per l’uomo e,
quindi, compatibile con le nuove spese da questi assunte a seguito della
separazione (si pensi al canone di affitto di una nuova abitazione, il mutuo per l’acquisto di una nuova casa,
ecc.).
Ferme queste
due linee direttive, accanto ad esse si aggiungono altri criteri che possono
integrare la valutazione del giudice e spingere l’ago della bilancia da un lato
piuttosto che dall’altro. Per esempio il tribunale dovrà tenere conto della durata
della convivenza prematrimoniale, del matrimonio stesso prima della
rottura, del contributo offerto da ciascuno dei due coniugi alla conduzione
familiare, ma soprattutto della capacità di reddito del coniuge che chiede il
mantenimento. In altre parole se quest’ultimo è ancora “abile”, capace cioè di
procurarsi con le proprie forze di che vivere, perché giovane, preparato/a,
magari con un titolo abilitativo e una formazione professionale, allora il
mantenimento potrà essere negato.
L’onere
della prova
L’aspetto
più interessante della sentenza in commento è che la Corte rigetta la domanda
di mantenimento della donna, una casalinga, per non aver questa fornito alcuna
prova dell’oggettiva impossibilità di procurarsi mezzi adeguati per conseguire
un tenore di vita analogo a quello mantenuto in costanza di matrimonio. In
altre parole, l’importanza del principio affermato in sentenza è quello secondo
cui la dimostrazione della “difficoltà economica” e della “impossibilità
a procurarsi un reddito” spetta alla donna. L’assegno, insomma, non diventa
più una misura automatica, che scatta per il solo fatto della
separazione tra i due coniugi.
In passato
gran parte degli assegni di mantenimento sono stati accordati
a semplice richiesta: il giudice ha accordato in automatico il mantenimento,
quasi si trattasse di una misura assistenziale perpetua, una sorta di
assicurazione sulla vita. Sembra invece consolidarsi il principio per cui, se
il richiedente (di norma la donna) non offre una valida giustificazione
economica, con una prova rigorosa, della sua incapacità a procurarsi un
reddito, perde ogni diritto. E non c’è modo di integrare la prova in appello.
I precedenti
In passato,
la Corte aveva sposato orientamenti più rigidi se non opposti. Si pensi che,
nel 1994 [2], i giudici avevano sostenuto invece che, in tema di
divorzio, il coniuge che richiede l’assegno divorzile può limitarsi a
dedurre di non avere i mezzi adeguati, trasferendo così sulla controparte
l’onere probatorio della contraria verità.
Successivamente
l’orientamento è mutato divenendo più rigido. Nel 2004 [3], la
Cassazione ha sostenuto che il coniuge richiedente il mantenimento deve dimostrare,
con idonei mezzi di prova, quale fosse tale tenore di vita e quale
deterioramento ne sia conseguito per effetto del divorzio, nonché tutte le
circostanze suscettibili di essere valutate dal giudice alla luce dei criteri
legislativi per la determinazione dell’assegno.
L’anno
scorso il Tribunale di Milano [4] ha ribadito l’importanza di
considerare la capacità lavorativa del coniuge che richiede il mantenimento. In
materia di assegno di mantenimento – si legge in sentenza – per
verificare i presupposti dell’attribuzione dello stesso (a seguito di
separazione personale), si deve prioritariamente valutare il tenore di vita
della famiglia, per poi valutare se i mezzi economici del coniuge
richiedente siano tali da consentire il mantenimento di tale tenore di
vita, indipendentemente dall’erogazione di un contributo di mantenimento, e se
sussista una disparità economica tra i due coniugi. Si deve, poi, avere
riguardo alle potenzialità economiche complessive dei coniugi (come
emerse durante il matrimonio), tenendo conto della durata del matrimonio e
dell’apporto dato da un coniuge alla formazione del patrimonio dell’altro.
Nella valutazione delle potenzialità economiche complessive, infine, deve anche
considerarsi l’attitudine al lavoro proficuo quale potenziale capacità di
guadagno e quale attitudine concreta allo svolgimento di un lavoro
retribuito, tenuto conto dei fattori individuali ed ambientali.
Come si
calcola l’assegno divorzile o di mantenimento
Secondo la Corte,
l’accertamento del diritto all’assegno divorzile si articola in due
fasi:
– nella
prima fase, il giudice verifica l’esistenza del diritto del soggetto che chiede
il mantenimento: accerta, cioè, l’eventuale inadeguatezza dei suoi
mezzi economici per garantirsi il tenore di vita analogo a quello avuto in
costanza di matrimonio. Il parametro di riferimento, però, non è solo il
reddito della famiglia quando ancora era unita, ma anche quello che sarebbe
presumibilmente proseguito in caso di continuazione del matrimonio. In questo
modo, allorché una coppia faccia grossi sacrifici solo per far decollare
un’attività o la carriera di uno dei, ma ciò avvenga solo dopo la separazione,
di tale utile potrà partecipare anche l’altro coniuge, come ricompensa ai precedenti
sforzi fatti;
– nella
seconda fase il giudice procede alla determinazione in concreto dell’ammontare
dell’assegno, che va compiuta tenendo conto delle condizioni dei coniugi, delle
ragioni della decisione e del contributo personale ed economico dato
da ciascuno alla conduzione familiare e alla formazione del patrimonio di
ognuno e di quello comune, nonché del reddito di entrambi, valutandosi tali
elementi anche in rapporto alla durata del matrimonio.
Nell’ambito
di questo duplice accertamento assumono rilievo – sottolinea la Corte – anche
le rispettive potenzialità economiche.
La sentenza
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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
Fatto
SVOLGIMENTO
DEL PROCESSO
1 – Con sentenza depositata in data 30 dicembre 2009 il Tribunale di Bari
dichiarava la cessazione degli effetti civili del matrimonio contratto da
T.F. e G.F., rigettando la domanda di assegno avanzata da quest’ultima.
1.1 – Con la sentenza indicata in epigrafe la Corte di appello di Bari,
pronunciando sull’impugnazione proposta dalla G., ha confermato la decisione
di primo grado.
L’appellante aveva sostenuto che durante il matrimonio il tenore di vita era
stato pari a quello di una famiglia media con reddito di lavoro dipendente
del solo marito e con moglie casalinga, e di non essere in grado – in quanto
impossidente e priva di lavoro, di mantenere detto tenore di vita, mentre il
T., che conviveva, nell’abitazione della stessa, con tale Gi., dalla quale aveva
anche avuto una figlia, si sarebbe collocato a riposo al solo scopo di creare
una situazione apparente di assenza di redditi, ma avrebbe in realtà avrebbe
continuato a lavorare presso terzi, percependo in ogni caso l’indennità di
disoccupazione e godendo di una situazione economica certamente superiore a
quella della G., come dimostrato anche dal possesso e dal mantenimento di
un’autovettura.
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1.2 – La
corte territoriale ha osservato che la ricorrente non aveva fornito alcuna
prova circa il tenore di vita mantenuto durante il matrimonio, nè aveva
adeguatamente dimostrato, al di là di mere asserzioni, la natura e gli
emolumenti derivanti dalle attività lavorative che pur aveva ammesso di
esercitare, sia pure in maniera saltuaria, mentre la deduzione circa la
convivenza del T. con la nuova compagna, se da un lato comportava, per la
nascita di una figlia, un deterioramento della sua condizione economica,
dall’altro era smentita dalla documentazione anagrafica acquisita.
Quanto alle
dimissioni del T., si è rilevato che costui aveva dimostrato di averle
rassegnate all’indomani di una contestazione disciplinare e che, in ogni caso,
aveva fornito la prova, con idonea documentazione, di essere disoccupato.
1.3 – Si è concluso quindi, per l’insussistenza dei presupposti per
l’attribuzione dell’assegno post matrimoniale, rilevandosi, da un lato, che la
G. era risultata dotata di idonea capacità lavorativa, mentre l’appellato aveva
dimostrato il peggioramento delle proprie condizioni economiche, sia per la
nascita di una figlia, sia per la perdita del lavoro.
1.4 – Per la
cassazione di tale decisione la G. propone ricorso, affidato a quattro motivi,
cui il T. resiste con controricorso, illustrato da memoria.
Diritto
MOTIVI DELLA
DECISIONE
2 – Con il primo motivo, denunciandosi violazione dell’art. 115 c.p.c., art.
2729 c.c., della L. n. 898 del 1970 e degli artt. 570 e 388 c.p., nonchè
omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto controverso
e decisivo per il giudizio, si afferma che non sarebbe stata la natura
artificiosa della condizione del T., il quale avrebbe rassegnato le dimissioni
dal proprio lavoro al solo scopo di sottrarsi agli obblighi nei confronti della
ricorrente. Per altro verso si sarebbe dato credito alle risultanze anagrafiche,
a fronte delle affermazioni della G. circo la convivenza con altra donna del
T., il quale, pertanto, non avrebbe fornito alcuna prova al riguardo. 2.1 – Con
il secondo mezzo si deduce violazione degli artt. 155 e 156 c.c.; della L. n.
898 del 1970, artt. 4, 5 e 10, nonchè omessa, insufficiente e contraddittoria
motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio: la Corte di
appello, confermando la decisione del Tribunale circa la cessazione
dell’assegno di mantenimento con decorrenza dalla sentenza di primo grado,
avrebbe violato il principio secondo cui tale assegno rimane valido fino alla
pronuncia definitiva sul divorzio. In ogni caso fino a tale momento avrebbe
dovuto essere corrisposto l’assegno disposto in via provvisoria dal Presidente del
Tribunale.
2.2 – La terza censura attiene alla violazione denunciata nel precedente motivo
sotto il profilo dell’omessa considerazione del tenore di vita tenuto dalla
coppia in costanza di matrimonio, proprio delle famiglie con un solo reddito e
prove di prole, cui si associava la sicurezza di una vita tranquilla e
socialmente valida.
2.3 – Con l’ultimo mezzo gli stessi tempi vengono proposti sotto il profilo
della violazione dell’obbligo di disporre accertamenti tramite la polizia
tributaria.
3 – La prima, la terza e la quarta censura possono esaminarsi congiuntamente,
attesa la loro intima connessione, per essere inerenti al tema
dell’attribuzione dell’assegno di divorzio. Deve in primo luogo evidenziarsi un
profilo di inammissibilità che attinge le suddette doglianze, in quanto, oltre
ad essere criticata in maniera generica e assertiva la valutazione della corte
territoriale circa la mancata dimostrazione del tenore di vita in precedenza
mantenuto dai coniugi, non viene censurata in alcun modo la speculare
questione, dotata di non minore rilevanza ai fini dell’attribuzione
dell’assegno di divorzio, circa la mancata prova di una condizione deteriore
della ricorrente ai fini del mantenimento, almeno in via tendenziale, di quel
tenore di vita. Ed infatti la sentenza impugnata, sulla base della ammissioni
della stessa G., ha affermato che la stessa era dotata di capacità lavorativa,
ponendo in evidenza la genericità delle doglianze circa il proprio stato.
D’altra parte, risulta adeguatamente approfondita la posizione del T., sia con
riferimento alla perdita del lavoro e alle relative ragioni, sia in relazione
agli obblighi inerenti al mantenimento di una figlia avuta da una nuova
compagna (con congrui rilievi circa la mancata prova in merito alla coabitazione
con quest’ultima).
3.1 – La sentenza impugnata appare, quindi, conforme ai principi affermati da
questa Corte in merito ai criteri di attribuzione dell’assegno di divorzio, e
resiste al complesso delle critiche, affatto generiche, mosse dalla ricorrente.
Infatti, ai sensi della L. n. 898 del 1970, art. 5, l’accertamento del diritto
all’assegno divorzile dev’essere effettuato verificando l’inadeguatezza dei
mezzi del coniuge richiedente, raffrontati ad un tenore di vita analogo a
quello avuto in costanza di matrimonio e che sarebbe presumibilmente proseguito
in caso di continuazione dello stesso o quale poteva legittimamente e
ragionevolmente configurarsi sulla base di aspettative maturate nel corso del
rapporto, mentre la liquidazione in concreto dell’assegno, ove sia riconosciuto
tale diritto per non essere il coniuge richiedente in grado di mantenere con i
propri mezzi detto tenore di vita, va compiuta tenendo conto delle condizioni
dei coniugi, delle ragioni della decisione e del contributo personale ed economico
dato da ciascuno alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio di
ognuno e di quello comune, nonchè del reddito di entrambi, valutandosi tutti i
suddetti elementi anche in rapporto alla durata del matrimonio (cfr. ex
plurimis, Cass., Sez. 1, 15 maggio 2013, n. 11686; 12 luglio 2007, n. 15611).
Nell’ambito
di questo duplice apprezzamento, occorre avere riguardo non soltanto ai redditi
ed alle sostanze del richiedente, ma anche a quelli dell’obbligato, i quali
assumono rilievo determinante sia ai fini dell’accertamento del livello
economico-sociale del nucleo familiare, sia ai fini del necessario riscontro in
ordine all’effettivo deterioramento della situazione economica del richiedente
in conseguenza dello scioglimento del vincolo.
Per poter
determinare lo standard di vita mantenuto dalla famiglia in costanza di
matrimonio, occorre infatti conoscerne con ragionevole approssimazione le
condizioni economiche, dipendenti dal complesso delle risorse reddituali e
patrimoniali di cui ciascuno dei coniugi poteva disporre e di quelle da
entrambi effettivamente destinate al soddisfacimento dei bisogni personali e
familiari, mentre per poter valutare la misura in cui il venir meno dell’unità
familiare ha inciso sulla posizione del richiedente è necessario porre a
confronto le rispettive potenzialità economiche, intese non solo come
disponibilità attuali di beni ed introiti, ma anche come attitudini a
procurarsene in grado ulteriore (cfr. Cass., Sez. 1, 12 luglio 2007, n. 15610;
28 febbraio 2007, n. 4764).
3.2 – In
tale contesto, in cui assume rilievo centrale la nozione di “adeguatezza”
(sulla quale crf. Cass., 4 ottobre 2010, n. 20582), la corte territoriale ha
posto in evidenza, fra l’altro, la totale carenza di elementi probatori
inerenti all’impossibilità oggettiva in capo alla G. di procurarsi mezzi
adeguati per conseguire un tenore di vita analogo a quello mantenuto in
costanza di matrimonio, e, quindi, il mancato assolvimento del relativo onere
(Cass., 3 novembre 2004, n. 21080; Cass., 8 agosto 2003, n. 11975; Cass.,
26 marzo 1994, n. 2982).
Tale motivazione non risulta adeguatamente censurata, sostanziandosi le
deduzioni della G. nell’affermazione della sussistenza di un complessivo ed
esclusivo onere della prova a carico dell’onerato.
3.3 – Alla luce delle superiori considerazioni, i rilievi della ricorrente
circa il mancato esercizio dei poteri di accertamento in deroga al principio
dell’onere della prova non colgono nel segno, avendo questa Corte affermato che
il giudice del merito, ove ritenga “aliunde” raggiunta la prova
dell’insussistenza dei presupposti che condizionano il riconoscimento
dell’assegno di divorzio, può direttamente procedere al rigetto della relativa
istanza, anche senza aver prima disposto accertamenti d’ufficio attraverso la
polizia tributaria (che non possono assumere valenza “esplorativa”: Cass., 28
gennaio 2008, n. 2098), atteso che l’esercizio del potere officioso di
disporre, per il detto tramite, indagini sui redditi e sui patrimoni dei
coniugi e sul loro effettivo tenore di vita rientra nella sua discrezionalità,
non trattandosi di un adempimento imposto dall’istanza di parte, purchè esso
sia correlabile anche per implicito ad una valutazione di superfluità
dell’iniziativa e di sufficienza dei dati istruttori acquisiti (Cass., 6 giugno
2013, n. 14336; Cass., 28 aprile 2006, n. 9861).
4 – La seconda censura è inammissibile, trattandosi di questione che risulta
proposta per la prima volta in questa sede. Dalla decisione impugnata, infatti,
non risulta che la G. abbia avanzato uno specifico motivo di gravame in merito
alle disposizioni che il Tribunale avrebbe assunto circa la decorrenza
dell’assegno divorzile, nè il ricorso, limitandosi a denunciare la violazione
delle suindicate norme, specifica – in ottemperanza al principio di
autosufficienza del ricorso, in quali termini avrebbe introdotto il tema in
esame in sede di gravame. Giova richiamare, in proposito il principio
costantemente affermato da questa Corte, secondo cui, qualora con il ricorso
per cassazione siano prospettate questioni di cui non vi sia cenno nella
sentenza impugnata, è onere della parte ricorrente, al fine di evitarne una
statuizione di inammissibilità per novità della censura, non solo di allegare
l’avvenuta loro deduzione innanzi al giudice di merito, ma anche, in ossequio
al principio di autosufficienza del ricorso stesso, di indicare in quale
specifico atto del giudizio precedente lo abbia fatto, onde dar modo alla
Suprema Corte di controllare “ex actis” la veridicità di tale asserzione prima
di esaminare il merito della suddetta questione (Cass., 18 ottobre 2013, n.
23675).
5 – In definitiva, il ricorso va rigettato, ricorrendo giusti motivi, attese le
difficoltà di individuare la ripartizione
dell’onere
della prova in relazione alla complessità della vicenda, per la compensazione
delle spese processuali relative al presente giudizio di legittimità.
PQM
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e compensa le spese processuali relative al
presente giudizio di legittimità. Dispone che in caso di diffusione del
presente provvedimento siano omesse le generalità e gli altri dati
significativi.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Prima Civile, il
11 dicembre 2014.
Depositato in Cancelleria il 9 giugno 2015
|
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[1] Cass. sent. n. 11870/2015.
[2] Cass. sent. n. 2982/1994.
[3] Cass. sent. n. 21080/2004.
[4] Trib. Milano, sent. n. 14269/2014.