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lunedì 26 settembre 2016

Mantenimento alla donna che decide di dedicarsi alla casa



Mantenimento alla donna che decide di dedicarsi alla casa
Separazione e divorzio: se la scelta della donna di non lavorare e dedicarsi alla famiglia è condivisa da entrambi i coniugi, a quest’ultima spetta l’assegno di mantenimento anche se ha un potenziale lavorativo.
 Non basta un titolo professionale in capo all’ex moglie per evitare di versarle il mantenimento. L’assegno mensile alla donna, conseguente alla separazione dei coniugi, spetta anche se questa abbia un potenziale lavorativo (perché dotata di laurea e iscritta in un albo professionale) se, per una scelta condivisa con il marito, abbia deciso di dedicarsi alla casa e rinunciare alla libera professione. È quanto chiarito dalla Cassazione con una ordinanza pubblicata ieri [1].
 Secondo la Corte, in caso di separazione non serve appellarsi al fatto che la donna abbia titoli per esercitare una determinata professione (nella specie, quella di commercialista per via dell’iscrizione al relativo albo) per escludere il pagamento, da parte dell’ex marito, dell’assegno di mantenimento: se «l’impiego» delle competenze della donna per il ménage quotidiano della casa e della famiglia è stato frutto di «una scelta condivisa» durante il matrimonio, scelta «finalizzata a limitare il tempo dedicato al lavoro e a non svolgere l’impegnativa attività professionale» proprio per «non sottrarre ulteriore tempo alla vita familiare», allora quest’ultima ha diritto a essere mantenuta. La rinuncia a una carriera professionale, fatta anche nell’interesse dell’ex marito, ha diritto a un compenso dopo la separazione. E questo compenso si chiama assegno di mantenimento. Che spetta almeno finché non si metta in proprio e guadagni almeno quanto l’ex marito.
 La sentenza
Corte di Cassazione, sez. VI Civile – 1, ordinanza 13 giugno – 21 settembre 2016, n. 18542
Presidente Ragonesi – Relatore Bisogni
Fatto e diritto
Rilevato che in data 22 aprile 2016 è stata depositata relazione ex art. 380 bis c.p.c. che qui si riporta
Rilevato che
·  II Tribunale di Torino, con sentenza n. 6939/2008, ha pronunciato la separazione personale dei coniugi E.V. e M. A. C., ha respinto le reciproche domande di addebito e ha disposto a carico del Celia un assegno mensile di mantenimento di 750 euro in favore della V..
·  La decisione è stata confermata dalla Corte di appello di Torino con sentenza n. 2354/13.
·  Ricorre per cassazione M. A. C. affidandosi a sei motivi di ricorso tutti relativi alla insussistenza del diritto all’assegno e alla quantificazione del suo ammontare.
·  Si difende con controricorso E.V..
Ritenuto che
·  Con il primo motivo di ricorso si deduce, ex art. 360 nn. 3 e 5 c.p.c., la violazione e falsa applicazione dell’art. 156 c. c. e 1′ omesso esame di un fatto decisivo della controversia. Il ricorrente sostiene che la Corte di appello ha adottato dati non comparabili per accertare la sussistenza del diritto all’assegno di mantenimento richiesto dalla V. in quanto ha preso in considerazione il suo reddito imponibile e non
quello netto.
·  Il motivo appare inammissibile o, comunque, infondato perché sebbene la Corte di appello abbia fatto riferimento al reddito imponibile dichiarato dal ricorrente ha poi compiuto una valutazione più articolata della sua capacità economica reale che tiene evidentemente conto dell’imposizione fiscale sul reddito.
·  Con il secondo motivo di ricorso si deduce la violazione e falsa applicazione dell’art. 156 c.c..
il ricorrente censura la sentenza di appello in quanto ha considerato come parti del reddito anche i versamenti integrativi di natura volontaria.
·  La censura appare infondata in quanto sono stati correttamente presi in considerazione dalla Corte distrettuale quel versamenti che attestano l’entità del reddito disponibile del ricorrente ai fini della decisione sul diritto della V. a un assegno di mantenimento.
·  Con il terzo motivo di ricorso si deduce, ex art. 360 n. 3 c.p.c., la violazione e falsa applicazione dell’art. 156 c.c. Ii ricorrente ritiene che la Corte di appello abbia violato l’art. 156 c.c. laddove ha ritenuto che la V. non disponga di redditi propri sufficienti ad assicurarle un tenore di vita analogo a quello goduto nel corso del matrimonio, tenore di vita che la Corte di appello ha ricostruito assumendo erroneamente che la V. era in condizione di non lavorare perchépoteva contare sulle capacità reddituali del marito. Contesta altresì il ricorrente la quantificazione dell’assegno in quanto idonea a creare una sperequazione a vantaggio del coniuge pretesamente debole.
·  Con il quarto motivo di ricorso si deduce, ex art. 360 nn. 3 e 5 c.p.c., la violazione e falsa applicazione dell’art. 156 c.c. e l’omesso esame di un fatto decisivo della controversia. il ricorrente sostiene che la Corte di appello ha omesso di fatto la valutazione del patrimonio immobiliare della V. e ha compiuto una arbitraria valutazione di equivalenza “numerica” delle consistenze patrimoniali dei due ex coniugi.
·  I due motivi appaiono inammissibili in quanto intesi a una riedizione del giudizio di merito. Sono inoltre infondati quanto alla pretesa omessa valutazione di fatti decisivi come la consistenza patrimoniale degli ex coniugi, valutazione comparativa che la Corte di appello ha compiuto analiticamente valutando anche le ricadute dei due patrimoni sul comune tenore di vita. Infine la Corte distrettuale ha ritenuto legittimaiaente, in assenza di prova contraria, che l’impiego delle capacità lavorativa della V. abbia costituito l’oggetto di una scelta condivisa e finalizzata a limitare il tempo dedicato al lavoro, dalla V., all’attività di ricercatrice e a nonsvolgere l’impegnativa ulteriore attività di commercialista per non sottrarre ulteriore tempo alla vita familiare, in assenza di una impellente necessità di acquisizione di ulteriori redditi oltre a quelli già percepiti dai coniugi dallo svolgimento dalla predetta attività di ricercatrice universitaria e di rappresentante e agente commerciale.
·  Con il quinto motivo di ricorso si deduce, ex art. 360 n. 3 c.p.c., la violazione e falsa applicazione dell’art. 156 c.c il ricorrente ritiene che la Corte di appello abbia violato l’art. 156 c.c. laddove ha omesso di considerare che il tenore di vita attribuito alla V. nel corso del matrimonio era dipendente anche dal suo patrimonio immobiliare.
·  Anche questo motivo consiste in una richiesta di rivalutazione del merito della controversia basata sul preteso omesso esame delle condizioni patrimoniali della V. ai fini. della ricostruzione del tenore di vita familiare. Omesso esame che non emerge affatto dalla lettura della motivazione che prende in esame la analoga censura mossa alla decisione di primo grado.
·  Con il sesto motivo di ricorso si deduce, ex art. 360 n. 3 c.p.c., la violazione e falsa applicazione dell’art. 156 c.c. Il ricorrente ritiene che la Corte di appello non abbia valutato adeguatamente la capacità lavorativa e reddituale della V. in quanto abilitataall’esercizio della professione di commercialista.
·  Valgono anche per questo motivo le considerazioni già svolte per i precedenti. Si tratta di un profilo di merito che la Corte di appello ha già valutato rilevando che la V. svolge attività di ricercatrice universitaria dalla quale ritrae un reddito significativamente inferiore a quello del C. mentre non è contestato che la V. non abbia mai svolto, sebbene abilitata, l’attività professionale di commercialista. La Corte distrettuale ha valutato inoltre la difficoltà di intraprendere ora tale attività professionale.
·  Sussistono pertanto i presupposti per la discussione in camera di consiglio del ricorso e, qualora il Collegio condivida la relazione, per il suo rigetto.
La Corte letta la memoria difensiva del ricorrente rilevato che anche la comparazione dei redditi netti imponibili dei due coniugi, operata sulla media degli ultimi redditi percepiti e comprendendo anche i versamenti integrativi effettuati dal C. attesta la maggiore capacità reddituale di quest’ultimo;
rilevato che la Corte di appello, all’esito della valutazione e comparazione dei beni immobiliari dei coniugi C. e V. ha espresso un giudizio di sostanziale equivalenza che non può essere sindacato in questa sede attesa la analiticità e completezza della motivazione alla pari di quanto la Cortedistrettuale ha ritenuto circa la effettiva capacità lavorativa della V. e il tenore di vita goduto in costanza di matrimonio;
ritenuto che la relazione sopra riportata deve essere pertanto condivisa con conseguente rigetto del ricorso e condanna del ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di cassazione.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di cassazione liquidate in complessivi 3.100 euro di cui 100 per spese. Dispone che in caso di diffusione del presente provvedimento siano omesse le generalità e gli altri dati identificativi a norma dell’art. 52 del decreto legislativo n. 196/2003.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del D.P.R. n. 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso princIpa e a norma dell’art. 13, comma 1 bis, dello stesso articolo 13.

mercoledì 21 settembre 2016

Che cosa succede se i coniugi non riescono a trovare un accordo circa la fissazione dell’indirizzo familiare?

Che cosa succede se i coniugi non riescono a trovare un accordo circa la fissazione dell’indirizzo familiare?
 In base al principio fissato dall'articolo 144 del c.c., la scelta della residenza familiare è rimessa alla volontà concordata di entrambi i coniugi, con la conseguenza che tale scelta non deve soddisfare soltanto le esigenze economiche e professionali del marito, ma deve soprattutto salvaguardare le esigenze di entrambi i coniugi e quelle preminenti della serenità della famiglia. (Corte di Cassazione Sezione 1 Civile, Sentenza del 3 ottobre 2008, n. 24574).
In caso di disaccordo tra coniugi sull’indirizzo familiare, a norma dell’art. 145 del codice civile entrambi  possono chiedere (la richiesta non necessita di alcuna formalità) l’intervento del giudice del luogo, il quale, ascoltati i coniugi e, se interessati, anche i figli conviventi che abbiano compiuto il 16° anno di età, tenta di raggiungere una soluzione concordata.
Qualora il disaccordo non sia sanato e riguardi la fissazione della residenza o altri affari essenziali relativi alla conduzione della vita familiare, se richiesto espressamente e congiuntamente dai coniugi, il giudice adotta, con un provvedimento non impugnabile, la soluzione ritenuta più adeguata alle esigenze dell’unità e della vita familiare.
La norma suddetta, per la verità, ha trovato scarsa applicazione, in considerazione del fatto che i coniugi, in presenza di insanabili contrasti, preferiscono far ricorso direttamente all’istituto della separazione personale.

martedì 20 settembre 2016

Separazione tra sposi di paesi diversi, Sezioni Unite precisano giurisdizione



Separazione tra sposi di paesi diversi, Sezioni Unite precisano giurisdizione
10-09-2016 06:31 - Cassazione Sezioni Civili

Su tale problematica si sono espresse le Sezioni Unite Civili della Corte di Cassazione, con la sentenza depositata il 7 settembre 2016, n. 17676.
I Supremi Giudici nel caso sottoposto al loro esame, riguardante un caso di separazione tra un cittadino italiano ed una cittadina britannica, il cui matrimonio, dal quale era nato un figlio con il quale la donna era poi tornata a vivere in Inghilterra, era stato celebrato in Italia, hanno dichiarato la competenza del giudice ordinario statale in relazione alle problematiche attinenti precipuamente la separazione personale, mentre hanno dichiarato sussistere un difetto di giurisdizione del giudice italiano in relazioni alle questioni inerenti all´affidamento ed al mantenimento del figlio minore.
I Supremi Giudici hanno precisato come questa diversificazione in ordine alla Giurisdizione sia da collegare alla applicazione al caso "de quo" del Regolamento CE n. 2201 del 2003.
Tale regolamento introduce una precisa distribuzione in ordine alla giurisdizione nei casi di separazione personale accompagnati da dinamiche relative all´affidamento di figli minori devolvendo in via esclusiva la competenza a decidere sulle domande incluse nel secondo ambito, pure se proposte congiuntamente a quella di separazione giudiziale, al giudice del luogo in cui il minore risiede abitualmente.
Quando, dunque, come nella fattispecie sottoposta all´attenzione del Supremo Collegio, il minore non risiede abitualmente nello Stato membro in cui si svolge il procedimento di separazione, il suo superiore e preminente interesse col criterio di vicinanza, impongono, salvo le contemplate eccezionali deroghe, peraltro nel caso non operative, di scindere i due ambiti e di non attribuire al giudice adito per il primo procedimento d´indole matrimoniale anche la competenza a conoscere delle domande concernenti la responsabilità genitoriale, se non accettata dal coniuge convenuto e non corrispondente all´interesse del figlio minorenne.
Inoltre, hanno ancora affermato le SS.UU., qualora il giudice italiano sia investito della domanda di separazione personale dei coniugi e il giudice di altro Stato membro sia investito e competente sulla domanda di responsabilità genitoriale, a quest´ultimo spetta, anche ai sensi dell´art. 5 n. 2) del Regolamento (CE) n. 44 del 2001 del Consiglio del 22 dicembre 2000 nella specie applicabile ratione temporis, la giurisdizione sulla domanda relativa al mantenimento del figlio minore (non ricompresa nel campo d´applicazione del Regolamento CE n. 1201/2003: Considerando n. 11) trattandosi di domanda accessoria a quella di responsabilità genitoriale e non a quella separatizia (in tema, cfr, Cass. SU n. 2276 del 2016: Corte di Giustizia UE, sentenza 16 luglio 2015 in causa c. 184/14).
Ciò detto, e venendo alla soluzione della questione loro sottoposta, se da una parte la domanda di separazione così come proposta, ossia innanzi il tribunale campano, sembrava essere stata correttamente articolata, la giurisdizione del giudice ordinario italiano, hanno concluso le Sezioni Unite, andava negata rispetto alle domande inerenti all´affidamento e al mantenimento del figlio della coppia, in quanto devolute in via esclusiva alla competenza del giudice del Regno Unito, luogo dove appunto risiedeva il minore.


lunedì 19 settembre 2016

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Unioni civili: in Gazzetta il decreto attuativo



Unioni civili: in Gazzetta il decreto attuativo
D.P.C.M., 23/07/2016 n° 144, G.U. 28/07/2016
Pubblicato il 01/08/2016
E' stato pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 175 del 28 luglio 2016 il Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri 23 luglio 2016, n. 144, avente ad oggetto il "Regolamento recante disposizioni transitorie necessarie per la tenuta dei registri nell'archivio dello stato civile, ai sensi dell'articolo 1, comma 34, della legge 20 maggio 2016, n. 76".
Il regolamento stabilisce le modalità di presentazione della richiesta di costituzione dell'unione civile, il contenuto della dichiarazione che le parti devono rendere dinanzi all'ufficiale di stato civile, nonché gli adempimenti successivi da parte degli uffici anagrafici.
La dichiarazione di costituzione dell'unione civile deve contenere i dati anagrafici delle parti e l'indicazione dell'assenza di cause ostative all'unione.
Ricevuta la dichiarazione, l'ufficiale di stato civile redige apposito verbale, sottoscritto dalle parti e dai testimoni, nel quale è fatta menzione dei principali diritti e doveri derivanti dalla costituzione dell'unione civile:
  • obbligo reciproco all'assistenza morale e materiale e alla coabitazione; 
  • obbligo di contribuzione ai bisogni comuni in base alle sostanze e propria capacità di lavoro professionale e casalingo di ciascuna delle parti; 
  • concorde decisione dell'indirizzo della vita familiare, fissazione della residenza comune.
Nella dichiarazione le parti possono rendere la dichiarazione di scelta del regime patrimoniale della separazione dei beni e possono indicare il cognome comune che hanno stabilito di assumere per l'intera durata dell'unione; la parte può dichiarare all'ufficiale di stato civile di voler anteporre o posporre il proprio cognome, se diverso, a quello comune.
A seguito della dichiarazione gli uffici anagrafici procedono alla annotazione nell'atto di nascita e all'aggiornamento della scheda anagrafica.
Nei 15 giorni successivi, l'ufficiale di stato civile deve verificare l'esattezza delle dichiarazioni.
In caso di scioglimento dell'unione civile per accordo delle parti, l'accordo è ricevuto dall'ufficiale di stato civile del comune di residenza di una delle parti o del comune presso cui e' iscritta o trascritta la dichiarazione costitutiva dell'unione. 
L'accordo viene iscritto nel registro provvisorio delle unioni civili ed è annotato negli atti di nascita di ciascuna delle parti.
L'Ufficiale dello stato civile rilascia il documento attestante la costituzione dell'unione, recante i dati anagrafici delle parti, l'indicazione del regime patrimoniale e della residenza, oltre ai dati anagrafici ed alla residenza dei testimoni.
Nei documenti e atti in cui è prevista l'indicazione dello stato civile, per le parti dell'unione civile sono riportate, a richiesta degli interessati, le seguenti formule: «unito civilmente» o «unita civilmente».
Il regolamento stabilisce inoltre l'istituzione del registro provvisorio delle unioni civili presso ciascun comune.
Con apposito decreto del Ministro dell'Interno, da emanare entro 5 giorni dall'entrata in vigore del regolamento, saranno approvate le formule da utilizzare nella redazione degli atti di stato civile.

mercoledì 14 settembre 2016

Divorzio: niente indennità all'ex moglie se diversa dal Tfr



Divorzio: niente indennità all'ex moglie se diversa dal Tfr
Per la Cassazione, il diritto riconosciuto dall'art. 12-bis l. 898/1970 non riguarda la cessazione di attività imprenditoriali
E' escluso il diritto dell'ex moglie alla quota dell'indennità di fine rapporto se l'altro coniuge è un agente. In alcuni casi, la contrattazione collettiva degli agenti generali assicurativi riconosce a tali soggetti un'attribuzione patrimoniale in caso di cessazione del rapporto, ma il semplice collegamento tra l'attribuzione patrimoniale e la conclusione del rapporto di agenzia non può essere alla base della corresponsione di una quota di tale indennità all'ex coniuge, così come avviene per il TFR. A precisarlo è la Corte di Cassazione, con la sentenza n. 17883/2016, depositata il 9 settembre scorso (qui sotto allegata). 
Nel caso di specie, l'attività di agente posta in essere dal soggetto titolare dell'attribuzione patrimoniale aveva avuto natura imprenditoriale: essa, infatti, era stata esercitata attraverso una struttura organizzativa complessa e articolata, corredata di una vasta dotazione di mezzi e personale.
L'articolo 12-bis della legge numero 898 del 1970 invece, nel prevedere che all'ex coniuge che non sia passato a nuove nozze e sia titolare di un assegno divorzile spetta una percentuale dell'indennità di fine rapporto percepita dall'altro coniuge, collega tale diritto non alla cessazione di un rapporto qualsiasi ma, specificamente, alla cessazione di un rapporto di lavoro: così facendo, tale norma circoscrive il suo ambito applicativo e non permette di ricomprendervi qualsiasi emolumento che sia in qualche modo collegato alla cessazione di un'attività economica svolta dall'altro coniuge. Presupposto fondamentale è la presenza del vincolo di subordinazione o, quantomeno, parasubordinazione.
Così argomentando, la Corte di cassazione ha quindi respinto il ricorso di una donna che pretendeva le fosse attribuita una quota dell'indennità di fine rapporto riconosciuta all'ex marito per la sua attività di agente generale: il riconoscimento di tale pretesa non può prescindere dalla natura del rapporto nella cui cessazione l'indennità ha il presupposto. Dato che nel caso di specie mancavano sia la subordinazione che la parasubordinazione, la donna dovrà rassegnarsi: l'articolo 12-bis non la riguarda.