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mercoledì 9 novembre 2016

Il padre che trascura i figli risarcisce il danno



Il padre che trascura i figli risarcisce il danno
Commette un illecito civile chi priva il minore di un'importante figura di riferimento. Il punto della giurisprudenza
Separazione e divorzio sono eventi che coinvolgono in particolar modo i figli delle coppie che decidono di porre fine al loro rapporto. Non tutti i genitori, infatti, alla fine della relazione riescono a mantenere con la prole un rapporto scevro dalle implicazioni che l'evento ha avuto con il partner, nonostante la legge cerchi di tutelare il più possibile i minori incentivando la presenza dei genitori sia personalmente che economicamente nell'interesse dei figli. Spesso, addirittura, il genitore neppure riconosce il figlio avuto da una relazione, costringendo l'altro ad accollarsi gli oneri di mantenimento e privando il minore di un'importante figura di riferimento per la sua crescita.

Si parla del cd. diritto alla bigenitorialità, espressamente menzionato dall'art. 337 ter del codice civile, secondo il quale "Il figlio minore ha il diritto di mantenere un rapporto equilibrato e continuativo con ciascuno dei genitori, di ricevere cura, educazione, istruzione e assistenza morale da entrambi e di conservare rapporti significativi con gli ascendenti e con i parenti di ciascun ramo genitoriale". Un diritto che si salda con la previsione Costituzionale secondo cui "È dovere e diritto dei genitori mantenere, istruire ed educare i figli, anche se nati fuori del matrimonio".

La giurisprudenza, trovatasi ad affrontare diverse casistiche di trascuratezza e privazione affettiva da parte del genitore nei confronti dei figli, se da un lato ha confermato gli obblighi del genitore di concorrere al mantenimento del figlio, anche laddove la procreazione sia stata successivamente accertata con sentenza, e che le condotte inadempienti di un genitore possano integrare anche il reato di cui all'art. 570 del Codice Penale (Violazione degli obblighi di assistenza familiare), ha evidenziato anche la sussistenza di un vero e proprio illecito civile, conseguente alla violazione dei doveri inerenti all'assistenza, alla cura, al mantenimento e all'istruzione del figlio, derivante dalla volontaria, grave e reiterata sottrazione agli obblighi tutti derivanti dal rapporto di filiazione.

La Corte di Cassazione, nella sentenza n. 5652/2012, riguardante un figlio mai riconosciuto dal padre fino ad intervenuta sentenza ad hoc, ha confermato il risarcimento danni di natura non patrimoniale per la subita lesione dei fondamentali diritti della persona inerenti la qualità di figlio, precisando l'ambito del c.d. illecito endofamiliare: si tratta di comportamenti che, ove cagionino la lesione di diritti costituzionalmente protetti, possono integrare gli estremi dell'illecito civile e dare luogo ad un'autonoma azione volta al risarcimento dei danni non patrimoniali ai sensi dell'art. 2059 c.c.

Stesso risultato anche nella sentenza n. 16657/2014 della Suprema Corte, riguardante due figli che il convenuto non aveva riconosciuto e dei quali si era del tutto disinteressato, avendoli abbandonati e avendo fatto mancare loro l'assistenza morale e materiale. Il genitore, precisa la Corte, è responsabile della violazione degli obblighi nascenti dal rapporto di filiazione, per avere privato i figli dell'affettività paterna, per avere dimostrato totale insensibilità nei loro confronti, come dimostrato dal rifiuto di corrispondere i mezzi di sussistenza e negato loro ogni aiuto, non solo economico, con conseguente violazione di diritti di primaria rilevanza costituzionale.

Infatti, la violazione dei doveri di mantenimento, istruzione ed educazione dei genitori verso la prole, a causa del disinteresse mostrato nei confronti dei figli per lunghi anni è un comportamento idoneo ad integrare un fatto generatore di responsabilità aquiliana, poichè rivelatore di responsabilità genitoriale per avere deprivato i figli della figura genitoriale, che costituisce un fondamentale punto di riferimento soprattutto nella fase della crescita.

Principi avallati anche dalla giurisprudenza di merito: il Tribunale di Venezia, sezione terza, civile, in una sentenza del 30 giugno 2004 ha verificato la lesione di un diritto fondamentale del figlio laddove questi venga immotivatamente trascurato o rifiutato dal genitore, privato dell'apporto morale e assistenziale che, trascendendo l'ambito strettamente patrimoniale, evidenzia una lesione risarcibile e riconducibile del c.d. danno esistenziale.

Di recente il Tribunale di Roma, sentenza n. 11564/2016, ha condannato un padre a risarcire ai figli il danno non patrimoniale per la lesione subita a seguito della privazione della figura paterna, non avendo il genitore versato il mantenimento, frequentato gli incontri con i figli e occupatosi della loro crescita dopo la separazione o il divorzio. Anche qui indubbia la configurazione di un illecito che giustifica il risarcimento per i figli una volta divenuti maggiorenni.

Si tratta di un danno che può essere fatto valere addirittura contro gli eredi del genitore, come dimostra la sentenza della Corte di Cassazione n. 3079/2015, con cui gli Ermellini hanno evidenziato che il disinteresse dimostrato da un genitore nei confronti di una figlia aveva integrato sia la violazione degli obblighi di mantenimento, istruzione ed educazione, e incrinato quei diritti nascenti dal rapporto di filiazione riconosciuti e tutelati dalla Costituzione e dalle norme internazionali.

Alla figlia, trascurata per tutta la vita del padre, la Cassazione riconosce il diritto ad agire nei confronti della moglie e figlia "legittima" del genitore defunto, in qualità di suoi eredi, per il risarcimento del danno non patrimoniale derivante dall'abbandono, oltre che dal mancato mantenimento, e dal



giovedì 3 novembre 2016

Il diritto dei nonni di frequentare i nipoti.



Il diritto dei nonni di frequentare i nipoti.
Nonni e nipoti: un rapporto fondamentale.
 Leggiamo insieme il nuovo art. 317 bis del codice civile, introdotto dal Decreto Legislativo 28 dicembre 2013, n. 154, intitolato *Revisione delle disposizioni vigenti in materia di filiazione, a norma dell’articolo 2 della legge 10 dicembre 2012, n. 219, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 5 del 8–1–2014, ed entrato in vigore il 7 febbraio 2014:
Art. 317-bis. Rapporti con gli ascendenti Gli ascendenti hanno diritto di mantenere rapporti significativi con i nipoti minorenni. L’ascendente al quale e’ impedito l’esercizio di tale diritto può ricorrere al giudice del luogo di residenza abituale del minore affinchè siano adottati i provvedimenti più idonei nell’esclusivo interesse del minore. Si applica l’articolo 336, secondo comma.
Si tratta di un cambiamento importante per tutti i nonni che si trovano ad avere difficoltà nel mantenere i rapporti con i nipoti, specialmente in caso di separazioni conflittuali, che magari hanno visto il trasferimento altrove di parti della famiglia disgregata.
Prima di questa disposizione, i nonni non avevano un vero e proprio diritto a frequentare i nipoti, ma potevano riuscire a ottenere provvedimenti in materia solo «di riflesso», agendo sulla regola prevista per i genitori di consentire ai minori di mantenere rapporti con gli ascendenti di ciascun ramo, con qualche difficoltà interpretativa ed applicativa.
Con questa nuova norma, invece, il nonno cui viene negato di vedere il nipote nella misura giusta, diventa titolare di un vero e proprio diritto, tanto che in caso di problemi può ricorrere al tribunale affinché il giudice ordini a chi di dovere, con i contenuti più adatti al caso concreto e alle sue particolarità, di consentire questo rapporto in modo corretto.
È una novità positiva che riguarda un tema che mi è capitato di affrontare svariate volte sia nella vita professionale sia sulle pagine di questo blog.
Per la presentazione di questo tipo di ricorso, sempre al fine di agevolare gli utenti dando quella chiarezza che voglio rimanga la nostra cifra distintiva, abbiamo definito una tariffa di tipo flat nel nostro listino, valido per tutto il territorio nazionale, che consente alle persone che ne hanno bisogno di sapere con buona approssimazione il costo di una assistenza di questo genere.
La competenza per questo tipo di ricorso spetta al tribunale dei minorenni, in base all’ultima parte del comma 1° dell’art. 38 disp. att. cod. civ., così come riformulato dal provvedimento legislativo in esame.
Se il diritto dei «nonni» di vedere e frequentare i nipoti non viene consentito dallo Stato, questi può esserne dichiarato responsabile e condannato al risarcimento del danno. Infatti, la Corte europea per i diritti dell’uomo, con la sentenza del 20 gennaio 2015 (Manuello e Nevi), ha condannato l’Italia per violazione dell’art. 8 della Convenzione Europea per il mancato rispetto del diritto alla vita privata e familiare di due cittadini Italiani, nonni di una minore, privati del rapporto con la propria nipote per oltre 12 anni.

mercoledì 2 novembre 2016

Cassazione, anche il figlio sposato va mantenuto se rimane a vivere con i genitori



Cassazione, anche il figlio sposato va mantenuto se rimane a vivere con i genitori
Il matrimonio non è sempre motivo sufficiente a far cessare l’obbligo di mantenimento
I genitori hanno l’obbligo di mantenere i figli anche una volta che questi abbiano raggiunto la maggiore età qualora non siano ancora economicamente indipendenti. Lo si desume dall’articolo n. 147 del codice civile (Doveri versi i figli) in base al quale “il matrimonio impone ad ambedue i coniugi l’obbligo di mantenere, istruire ed educare la prole tenendo conto delle capacità, dell’inclinazione naturale e delle aspirazioni dei figli”.
La Corte di Cassazione ha affrontato tale questione più volte, soffermandosi in particolare anche sull’ipotesi in cui il figlio maggiorenne si sposi. Il nodo da sciogliere è il seguente:  con il matrimonio si può ritenere raggiunta da parte del figlio quella autosufficienza economica che fa venire meno l’obbligo di mantenimento a carico dei genitori?
Le sentenze della Suprema Corte, soprattutto le meno recenti, sembrano fornire al quesito una risposta affermativa in quanto il matrimonio determina il sorgere di una nuova famiglia. I coniugi fanno parte di un nuovo nucleo e assumono essi stessi degli obblighi di assistenza morale e materiale l’uno nei confronti dell’altro.
Ma le pronunce più recenti hanno rimesso in discussione la questione; in particolare con la sentenza n. 1585/2014 gli Ermellini hanno precisato che tale principio non ha valore assoluto ma potrebbero esserci delle eccezioni anche di fronte alla nascita di una nuova famiglia.
E’ il caso della vicenda da cui ha origine la sentenza in questione, che ha come protagonista una donna che si era sposata ma aveva continuato a vivere con la madre; quest’ultima era a sua volta separata dal marito, da cui riceveva un assegno di mantenimento.
Dopo il matrimonio della figlia, il padre si era rivolto al Tribunale chiedendo di essere esonerato dal versamento dell’assegno. Secondo l’uomo la figlia ormai si era creata una nuova famiglia e, quindi, doveva ritenersi economicamente indipendente.
Investita della questione la Corte di Cassazione ha invece dato ragione alla figlia riconoscendo come il matrimonio nel suo caso non avesse determinato alcun mutamento di condizione economica. La donna, infatti, era rimasta a vivere con la madre.
Ne consegue che l’obbligo di mantenimento da parte dei genitori nei confronti dei figli non viene meno se, dopo il matrimonio, non si concretizza alcun cambiamento effettivo nella vita dei coniugi rispetto al periodo antecedente le nozze, e se gli sposi continuano a vivere assieme ai genitori in ragione delle loro difficoltà economiche.
In questo caso, infatti, secondo gli Ermellini bisogna fare una distinzione tra il matrimonio inteso come semplice “atto”, ovvero una celebrazione da cui deriva la nascita del vincolo coniugale, e il matrimonio inteso come vero e proprio “rapporto coniugale” che fa scaturire anche i reciproci obblighi di assistenza e di contribuzione ai bisogni della famiglia.

lunedì 17 ottobre 2016

Ecco quando il coniuge tradito ha diritto al risarcimento del danno



Ecco quando il coniuge tradito ha diritto al risarcimento del danno
Casi e presupposti in cui al tradimento può seguire una condanna per risarcimento danni
Fiumi di pagine hanno alimentato nel corso degli anni la giurisprudenza in tema di infedeltà e addebito della separazione: il codice civile, all'art. 143, prevede espressamente quali sono "I diritti e doveri reciproci dei coniugi". In base a tale norma i coniugi sono tenuti non solo a collaborare nell'interesse della famiglia, a vivere sotto uno stesso tetto e a garantirsi una reciproca assistenza morale e materiale, l'art. 143 pone a carico delle parti anche un obbligo reciproco alla fedeltà.

Cosa accade in caso di comportamenti contrari al dovere di fedeltà?
Innanzitutto in sede di separazione, il giudice, se accerta che il comportamento di un coniuge è stato contrario ai doveri che derivano dal matrimonio (art. 151 c.c.), dichiara, ove ne ricorrano le circostanze e ne sia richiesto, a quale dei coniugi questa sia addebitabile.
Naturalmente l'addebito non consegue automaticamente alla mera presa d'atto dell'avvenuto tradimento: è, infatti, necessario accertare se la violazione del dovere di fedeltà abbia assunto specifica efficienza causale nella determinazione della crisi coniugale, ovvero se la relazione extra coniugale sia intervenuta quando la coppia era già in crisi per altri motivi.

Diverse le pronunce in cui si è ricordato che al coniuge infedele non è addebitabile la separazione se il tradimento non è stato la causa scatenante della crisi matrimoniale, crisi che, invece, era già in atto ed era stata provocata da altre ragioni. Si veda in proposito:"Separazione: addebito al marito infedele se non prova che l'amante è arrivata quando il matrimonio era già in crisi".

In sostanza solo quando la relazione è naufragata per colpa del coniuge fedifrago e del suo comportamento infedele, allora il tradimento può essere davvero motivo di addebito della separazione.

Il risarcimento del danno in favore del coniuge tradito
La Cassazione, tuttavia, si è spinta oltre, arrivando a riconoscere al coniuge tradito addirittura il diritto al risarcimento del danno, in quanto la violazione degli obblighi coniugali è idonea a integrare un vero e proprio illecito civile, vista la natura giuridica, oltre che morale, dei doveri derivanti dall'unione.

In una sentenza del 2005 (n. 9801/2005) la Corte aveva fatto notare che i doveri che derivano ai coniugi dal matrimonio non sono di carattere esclusivamente morale, ma hanno natura giuridica, come si desume dal riferimento, contenuto nell'art. 143 c.c., alle nozioni di dovere, di obbligo e di diritto nonché dall'espresso riconoscimento, nell'art. 160 c.c., della loro inderogabilità e dalle conseguenze di ordine giuridico che l'ordinamento fa derivare dalla loro violazione. Cosicché deve ritenersi che l'interesse di ciascun coniuge nei confronti dell'altro alla loro osservanza abbia valenza di diritto soggettivo.

Prendendo spunto da questa posizione, nella nota sentenza n. 18853/2011, la prima sezione civile della Cassazione ha precisato che la violazione di quei doveri non trova necessariamente la propria sanzione solo nelle misure tipiche previste dal diritto di famiglia, ma può anche, ove ne sussistano tutti i presupposti secondo le regole generali, integrare gli estremi di un illecito civile.

Presupposti per ottenere il risarcimento
Per la Corte, però, non è sufficiente in tal senso la mera violazione dei doveri matrimoniali, e neppure la pronuncia di addebito della separazione: questi non possono di per sè e automaticamente integrare una responsabilità risarcitoria, dovendo, in particolare, quanto ai danni non patrimoniali, riscontrarsi la concomitante esistenza di tutti i presupposti per cui viene riconosciuta detta responsabilità ossia la concreta violazione del dovere coniugale, la sussistenza del danno ingiusto e la prova del nesso causale tra violazione commessa e danno procurato.

Nel caso dell'infedeltà va dimostrato, precisa il Collegio, che questa "per le sue modalità e in relazione alla specificità della fattispecie, abbia dato luogo a lesione della salute del coniuge (lesione che dovrà essere dimostrata anche sotto il profilo del nesso di causalità)" oppure se "l'infedeltà per le sue modalità abbia trasmodato in comportamenti che, oltrepassando i limiti dell'offesa di per sè insita nella violazione dell'obbligo in questione, si siano concretizzati in atti specificamente lesivi della dignità della persona, costituente bene costituzionalmente protetto".

La Cassazione aggiunge che l'azione non è impedita dal fatto che i coniugi siano addivenuti a separazione consensuale e la separata azione per il risarcimento dei danni prodotti dalla violazione dei doveri nascenti dal matrimonio e riguardanti diritti costituzionalmente protetti è esperibile anche in mancanza di addebito della separazione.

L'indirizzo innovativo della Cassazione ha trovato conferma in diverse pronunce recenti: nell'ordinanza 19193/2015 la Suprema Corte ha confermato la condanna al risarcimento dei danni di un ex marito che aveva, con un atteggiamento equivoco e mistificatorio, indotto la moglie a ritenere superata la pregressa crisi coniugale mentre, per anni, aveva portato avanti una convivenza con altra donna di cui erano a conoscenza almeno i parenti dell'uomo. Tale comportamento aveva provocato uno stato di depressione grave nella moglie, oltre che una grave lesione della dignità personale, ponendosi come produttivo di danni risarcibili.

Da questo indirizzo ha preso le distanze, di recente, il Tribunale di Roma (sentenza 25 giugno 2015), affermando che non può essere accolta la domanda di risarcimento danni per violazione dei doveri coniugali, se non c'è stata una pronuncia di addebito della separazione (per approfondimenti: Lei lo ha tradito più volte? Nessun risarcimento danni all'ex marito se non c'è l'addebito della separazione).

Per il Tribunale capitolino non può escludersi un rapporto di accessorietà tra addebito e domanda risarcitoria: trattandosi di danno derivante dalla violazione di specifici obblighi coniugali il medesimo dovrebbe essere necessariamente azionato nell'ambito del giudizio di separazione, con conseguente preclusione di un'azione successiva che potrebbe astrattamente porsi in contrasto con il giudicato già in precedenza formatosi sulla separazione.