Mantenimento
alla donna che decide di dedicarsi alla casa
Separazione e divorzio: se la scelta della donna di
non lavorare e dedicarsi alla famiglia è condivisa da entrambi i coniugi, a
quest’ultima spetta l’assegno di mantenimento anche se ha un potenziale
lavorativo.
Non basta un titolo professionale in capo
all’ex moglie per evitare di versarle il mantenimento. L’assegno mensile alla
donna, conseguente alla separazione dei coniugi, spetta anche se questa
abbia un potenziale lavorativo (perché dotata di laurea e iscritta in un albo
professionale) se, per una scelta condivisa con il marito, abbia deciso di dedicarsi
alla casa e rinunciare alla libera professione. È quanto chiarito dalla
Cassazione con una ordinanza pubblicata ieri [1].
Secondo la Corte, in caso di separazione non
serve appellarsi al fatto che la donna abbia titoli per esercitare una
determinata professione (nella specie, quella di commercialista per via
dell’iscrizione al relativo albo) per escludere il pagamento, da parte dell’ex
marito, dell’assegno di mantenimento: se «l’impiego» delle competenze della donna
per il ménage quotidiano della casa e della famiglia è stato frutto di «una
scelta condivisa» durante il matrimonio, scelta «finalizzata a limitare il
tempo dedicato al lavoro e a non svolgere l’impegnativa attività professionale»
proprio per «non sottrarre ulteriore tempo alla vita familiare», allora
quest’ultima ha diritto a essere mantenuta. La rinuncia a una carriera
professionale, fatta anche nell’interesse dell’ex marito, ha diritto a un
compenso dopo la separazione. E questo compenso si chiama assegno di
mantenimento. Che spetta almeno finché non si metta in proprio e guadagni
almeno quanto l’ex marito.
La sentenza
Corte di Cassazione, sez. VI Civile – 1, ordinanza 13
giugno – 21 settembre 2016, n. 18542
Presidente Ragonesi – Relatore Bisogni
Fatto e diritto
Rilevato che in data 22 aprile 2016 è stata depositata
relazione ex art. 380 bis c.p.c. che qui si riporta
Rilevato che
·
II Tribunale di Torino, con sentenza n. 6939/2008, ha pronunciato la
separazione personale dei coniugi E.V. e M. A. C., ha respinto le reciproche
domande di addebito e ha disposto a carico del Celia un assegno mensile di
mantenimento di 750 euro in favore della V..
·
La decisione è stata confermata dalla Corte di appello di Torino con
sentenza n. 2354/13.
·
Ricorre per cassazione M. A. C. affidandosi a sei motivi di ricorso
tutti relativi alla insussistenza del diritto all’assegno e alla
quantificazione del suo ammontare.
·
Si difende con controricorso E.V..
Ritenuto che
·
Con il primo motivo di ricorso si deduce, ex art. 360 nn. 3 e 5 c.p.c.,
la violazione e falsa applicazione dell’art. 156 c. c. e 1′ omesso esame di un
fatto decisivo della controversia. Il ricorrente sostiene che la Corte di
appello ha adottato dati non comparabili per accertare la sussistenza del
diritto all’assegno di mantenimento richiesto dalla V. in quanto ha preso in
considerazione il suo reddito imponibile e non
quello
netto.
·
Il motivo appare inammissibile o, comunque, infondato perché sebbene la
Corte di appello abbia fatto riferimento al reddito imponibile dichiarato dal
ricorrente ha poi compiuto una valutazione più articolata della sua capacità
economica reale che tiene evidentemente conto dell’imposizione fiscale sul
reddito.
·
Con il secondo motivo di ricorso si deduce la violazione e falsa
applicazione dell’art. 156 c.c..
il ricorrente censura la sentenza di appello in quanto
ha considerato come parti del reddito anche i versamenti integrativi di natura
volontaria.
·
La censura appare infondata in quanto sono stati correttamente presi in
considerazione dalla Corte distrettuale quel versamenti che attestano l’entità
del reddito disponibile del ricorrente ai fini della decisione sul diritto
della V. a un assegno di mantenimento.
·
Con il terzo motivo di ricorso si deduce, ex art. 360 n. 3 c.p.c., la
violazione e falsa applicazione dell’art. 156 c.c. Ii ricorrente ritiene che la
Corte di appello abbia violato l’art. 156 c.c. laddove ha ritenuto che la V.
non disponga di redditi propri sufficienti ad assicurarle un tenore di vita
analogo a quello goduto nel corso del matrimonio, tenore di vita che la Corte
di appello ha ricostruito assumendo erroneamente che la V. era in condizione di
non lavorare perchépoteva contare sulle capacità reddituali del marito.
Contesta altresì il ricorrente la quantificazione dell’assegno in quanto idonea
a creare una sperequazione a vantaggio del coniuge pretesamente debole.
·
Con il quarto motivo di ricorso si deduce, ex art. 360 nn. 3 e 5 c.p.c.,
la violazione e falsa applicazione dell’art. 156 c.c. e l’omesso esame di un
fatto decisivo della controversia.
il ricorrente sostiene che la Corte di appello ha omesso di fatto la
valutazione del patrimonio immobiliare della V. e ha compiuto una arbitraria
valutazione di equivalenza “numerica” delle consistenze patrimoniali dei due ex
coniugi.
·
I due motivi appaiono inammissibili in quanto intesi a una riedizione
del giudizio di merito. Sono inoltre infondati quanto alla pretesa omessa
valutazione di fatti decisivi come la consistenza patrimoniale degli ex
coniugi, valutazione comparativa che la Corte di appello ha compiuto
analiticamente valutando anche le ricadute dei due patrimoni sul comune tenore
di vita. Infine la Corte distrettuale ha ritenuto legittimaiaente, in assenza
di prova contraria, che l’impiego delle capacità lavorativa della V. abbia
costituito l’oggetto di una scelta condivisa e finalizzata a limitare il tempo
dedicato al lavoro, dalla V., all’attività di ricercatrice e a nonsvolgere
l’impegnativa ulteriore attività di commercialista per non sottrarre ulteriore
tempo alla vita familiare, in assenza di una impellente necessità di
acquisizione di ulteriori redditi oltre a quelli già percepiti dai coniugi dallo
svolgimento dalla predetta attività di ricercatrice universitaria e di
rappresentante e agente commerciale.
·
Con il quinto motivo di ricorso si deduce, ex art. 360 n. 3 c.p.c., la
violazione e falsa applicazione dell’art. 156 c.c il ricorrente ritiene che la
Corte di appello abbia violato l’art. 156 c.c. laddove ha omesso di considerare
che il tenore di vita attribuito alla V. nel corso del matrimonio era
dipendente anche dal suo patrimonio immobiliare.
·
Anche questo motivo consiste in una richiesta di rivalutazione del
merito della controversia basata sul preteso omesso esame delle condizioni
patrimoniali della V. ai fini. della ricostruzione del tenore di vita
familiare. Omesso esame che non emerge affatto dalla lettura della motivazione
che prende in esame la analoga censura mossa alla decisione di primo grado.
·
Con il sesto motivo di ricorso si deduce, ex art. 360 n. 3 c.p.c., la
violazione e falsa applicazione dell’art. 156 c.c. Il ricorrente ritiene che la
Corte di appello non abbia valutato adeguatamente la capacità lavorativa e
reddituale della V. in quanto abilitataall’esercizio della professione di
commercialista.
·
Valgono anche per questo motivo le considerazioni già svolte per i
precedenti. Si tratta di un profilo di merito che la Corte di appello ha già
valutato rilevando che la V. svolge attività di ricercatrice universitaria
dalla quale ritrae un reddito significativamente inferiore a quello del C.
mentre non è contestato che la V. non abbia mai svolto, sebbene abilitata,
l’attività professionale di commercialista. La Corte distrettuale ha valutato
inoltre la difficoltà di intraprendere ora tale attività professionale.
·
Sussistono pertanto i presupposti per la discussione in camera di
consiglio del ricorso e, qualora il Collegio condivida la relazione, per il suo
rigetto.
La Corte letta la memoria difensiva del ricorrente
rilevato che anche la comparazione dei redditi netti imponibili dei due
coniugi, operata sulla media degli ultimi redditi percepiti e comprendendo
anche i versamenti integrativi effettuati dal C. attesta la maggiore capacità
reddituale di quest’ultimo;
rilevato che la Corte di appello, all’esito della
valutazione e comparazione dei beni immobiliari dei coniugi C. e V. ha espresso
un giudizio di sostanziale equivalenza che non può essere sindacato in questa
sede attesa la analiticità e completezza della motivazione alla pari di quanto
la Cortedistrettuale ha ritenuto circa la effettiva capacità lavorativa della
V. e il tenore di vita goduto in costanza di matrimonio;
ritenuto che la relazione sopra riportata deve essere
pertanto condivisa con conseguente rigetto del ricorso e condanna del
ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di cassazione.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al
pagamento delle spese del giudizio di cassazione liquidate in complessivi 3.100
euro di cui 100 per spese. Dispone che in caso di diffusione del presente
provvedimento siano omesse le generalità e gli altri dati identificativi a
norma dell’art. 52 del decreto legislativo n. 196/2003.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del D.P.R. n. 115
del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte
del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a
quello dovuto per il ricorso princIpa e a norma dell’art. 13, comma 1 bis,
dello stesso articolo 13.